A partire dallo scorso primo giugno,
Masaan, diretto da Neeraj Ghaywan, è stato distribuito nelle sale italiane, doppiato nella nostra lingua, col titolo
Tra la terra e il cielo.
Masaan è interpretato da Richa Chadha e Vicky Kaushal. Proiettato in prima mondiale al Festival di Cannes 2015, sezione
Un certain regard,
Masaan si era aggiudicato due premi: Prix de l'Avenir e FIPRESCI. A
Masaan è stato inoltre conferito il National Film Award per la migliore opera prima.
Trailer.
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Recensione di Aldo Spiniello, Sentieri Selvaggi, primo giugno 2016:
'Al suo primo lungometraggio dopo un passato nel mondo del marketing, Neeraj Ghaywan prova ad andare controcorrente. Si fa alfiere di un cinema indipendente, lontano dallo strapotere dell’industria bollywoodiana. E perciò concentra gran parte della sua attenzione sulla dimensione sociale, la critica di un sistema che, nonostante tutte le trasformazioni economiche in atto, è ancora legato ad antiche concezioni discriminanti. La divisione in caste, che influenza ancora nel profondo i rapporti sociali, il peso della religione sulla valutazione morale dei comportamenti. E poi il maschilismo di sostanza, nonostante l’emancipazione femminile sembri andare di pari passo allo sviluppo economico. E poi, su tutto, lo spettro della corruzione e l’incanto demoniaco del denaro. (...) Ma se dal punto di vista degli argomenti, Ghaywan sembra volersi smarcare dalla scintillante produzione mainstream, il suo stile appare pienamente conforme, ben al riparo dal rischio di soluzioni personali, di traiettorie visive dirompenti. Il tono romantico, il linguaggio veloce e accattivante, una confezione di lucida pulizia, l’utilizzo diegetico della musica e delle canzoni. (...) Tutto rientra alla perfezione nei canoni estetici delle maggiori produzioni indiane. Eppure, per uno strano paradosso, è proprio questa convenzionalità di fondo a garantire la tenuta del film. Perché, sebbene il racconto a doppia traiettoria mostri a tratti un eccesso meccanico, Tra la terra e il cielo sa delineare con delicatezza e amore dei personaggi forti, memorabili, grazie anche agli interpreti. (...) Riscoprendo la magia del racconto, Ghaywan segue i suoi protagonisti sul filo di emozioni e sentimenti sinceri, toccanti. E, alla fine, ci lasciamo andare con tenerezza a questo gioco del destino e dell’amore, che si ferma al principio di tutto. Di un’altra storia, tutta da vivere'.
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Recensione di Cristina Piccino, Il Manifesto, 2 giugno 2016: 'Ghaywan costruisce un meccanismo narrativo semplice ma di grande forza, che utilizza una regia precisa, sempre accanto ai suoi bravi attori, senza retorica né sentimentalismi, e in questa infelicità diffusa mescola molti generi, dal melò al tragico al documentario specie nel modo di condurci negli spazi in cui si muovono i personaggi, in strada, tra i gesti di ogni giorno'.
'«Lavoravo in una società - racconta il cineasta di Mumbai -, mi occupavo di economia, ma ero in crisi, avevo abbandonato tutto perché mi piaceva il cinema, da sei mesi i miei genitori non mi rivolgevano più la parola. Un amico mi aveva parlato dei ghat a Varanasi, le gradinate di pietra che conducono agli argini del Gange dove si incontrano i fedeli che si immergono nelle acque del fiume sacro e pregano e dove tradizionalmente vengono accese le pire per le cremazioni. Mi aveva spiegato che chi si occupa di cremare i corpi è privo di ogni emozione e gestisce il lavoro secondo codici antichissimi. Sono rimasto affascinato dal suo racconto. Ho cominciato così a immaginare la storia di Deepak, che appartiene alla casta degli intoccabili, i dalit, perché soltanto loro possono fare questo lavoro, considerato un atto impuro. L’idea era quella di seguire lo sviluppo anche emozionale di una persona che è a contatto con la morte ogni giorno».
Come si è preparato al film?
«Ho studiato due anni quell’ambiente, mi sono trasferito a Varanasi per parlare con le persone che lavorano giorno e notte sui ghat, per osservarli, capire il senso del loro lavoro. A dire il vero, nemmeno gli indiani sanno molto degli addetti alle cremazioni. Per questo dovevamo essere molto precisi. Ho cominciato a scrivere la sceneggiatura, mettendo insieme i volti e le storie che avevo visto e ascoltato».
È stato difficile girare le scene delle cremazioni?
«All’inizio avevamo deciso di girare sui veri ghat ma poi abbiamo pensato che non sarebbe stato rispettoso per le persone che nel lutto piangono i loro morti. Così abbiamo trovato un ghat abbandonato e lì abbiamo allestito il set per girare le scene più intense».
Mark Twain disse della città sacra di Varanasi: “È più antica della storia, più antica della tradizione, persino più antica della leggenda e ha l’aria di essere più antica di tutte e tre messe insieme”. Che cosa rappresenta per lei Varanasi?
«È conosciuta come la città dei morti, il luogo più sacro dell’India, dove la gente si prepara a morire perché per la religione induista solo così puoi accedere alla salvezza. Eppure la gente che ci lavora è talmente piena di vita! Parlano di tutto: di sport, cibo, politica, cultura, divertimento. Ho percepito un enorme contrasto. Ma Varanasi fino ad oggi era stata rappresentata al cinema come un luogo esotico o ancor peggio turistico, mentre io volevo descriverla così come è. Comunque il mio film non è sulla città ma sulla gente che vi abita. Volevo tornare all’umanità dell’India e alle sue contraddizioni e raccontarle dal punto di vista dei giovani».
I quali si trovano come accerchiati, però, dalla forza delle tradizioni.
«Siamo una grande democrazia ma fronteggiamo ogni giorno la tradizione legata alla nostra cultura. Varanasi ne è lo specchio, il simbolo. Il film rappresenta questa realtà: c’è gente anziana ma anche giovani che affrontano questo stato di cose. Il nostro è un mondo soggetto al cambiamento. I ragazzi vogliono emanciparsi da queste imposizioni, si sentono prigionieri. Non a caso, ciascuno dei protagonisti del film desidera fuggire, magari solo dalla sua condizione. Poi c’è il problema delle caste, che nel nostro Paese è ancora grandissimo. Nessuno lo vuole affrontare perché è troppo complesso. Nel film il problema non è centrale, ma c’è. Deepak è un dalit, ambizioso, vuole affrancarsi da questo giogo, essere se stesso, innamorarsi della ragazza che gli piace. È un bravo studente, cerca un lavoro. Devi invece è tranquilla, vuole solo conoscere se stessa e amare il suo ragazzo. Ma anche questo in India può essere un problema, perché la nostra è una società protezionistica e protettiva».
Ma lei nel suo film dimostra anche un profondo amore per l’India...
«Sì, ma non voglio nemmeno passare per un nazionalista. Voglio solo riconoscere che ci sono cose giuste e cose sbagliate. Non giudico e non commento. C’è modernità e chiusura, gli anziani non amano che le tradizioni siano messe in discussione. Nel film c’è un poliziotto corrotto che ricatta il padre di Devi, il quale si trova nel mezzo di questi due mondi, perché è anche colto e progressista. Ma entrambi sono in una situazione di degrado: l’uno vuole evitare lo scandalo e uscire dall’umiliazione in cui lo ha portato il comportamento della figlia, e per questo accetta di corrompere, l’altro sfrutta questa debolezza. Sono tutti e due moralmente riprovevoli. Come regista ho cercato di mantenere una bussola morale».
Ha affermato che il tema della morte aleggia su tutti i suoi personaggi. Perché?
«Nel film c’è il tema della perdita, ma anche la necessità di affrontarlo in modo catartico. Non si tratta solo di perdere qualcuno di amato, ma di fare di tale perdita un modo per crescere, per diventare più saggi. È quello che succede a Deepak che accetta la morte improvvisa di Shaalu e a Devi che capisce il punto di vista del padre. Tutti e due aspirano a raggiungere un luogo. Per me il film è un racconto di formazione, in cui il dolore può essere positivo e non portare alla disperazione».
Nella scena finale, assai evocativa, i due ragazzi che poco prima si erano incontrati nel pianto, salgono su una piccola barca, al tramonto.
«Due persone come loro, colpite così duramente, cercano di liberarsi dal peso del dolore. Hanno capito che quanto è successo loro in passato se ne sta andando e che sono finalmente liberi di poter affrontare il futuro, qualsiasi esso sia. La barca naviga verso uno dei luoghi più sacri per la religione indù, il Sangam, ossia la confluenza di tre fiumi, Gange, Yamuna e il mitico Saraswati: per loro è una meta anche metaforica, dove potrebbe avvenire la rigenerazione. Rasserenati, stanno pacificamente andando incontro alla speranza».'
Aggiornamento del 20 ottobre 2016: da oggi è in vendita il DVD di Tra la terra e il cielo. Nei contenuti speciali solo il trailer. L'audio è in italiano e in hindi con sottotitoli in italiano.