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29 febbraio 2012

Aravind Adiga: L'ultimo uomo nella torre

In questi giorni è in distribuzione in libreria L'ultimo uomo nella torre di Aravind Adiga, pubblicato da Giulio Einaudi Editore. Il 27 febbraio 2012 il Corriere della Sera ha pubblicato la recensione di Livia Manera:
'Bisogna avere rispetto per l'ingordigia umana. Soprattutto in una città come Mumbai, dove l'avidità è la benzina che fa correre il progresso, la crescita, il boom edilizio. E Aravind Adiga, che a Mumbai ci vive, sa, per esempio, che nella sua città non c'è cosa che abbia più valore della terra, oggi; che di conseguenza politici e palazzinari sono pronti a qualunque lusinga, bassezza o violenza, per strappare ai pezzenti le loro baracche; e che nulla al mondo come la promessa di ricchezza ha il potere di distruggere lo spirito di una comunità. Se oggi c'è uno scrittore in una posizione privilegiata per raccontare la nuova India delle gru che lavorano giorno e notte per costruire grattacieli scintillanti di marmo mentre squadre di straccioni demoliscono a colpi di martello edifici pieni di amianto in una nube di polveri tossiche, questo scrittore è l'ex giornalista del «Times» che ha vinto il Man Booker Prize nel 2008 con La tigre bianca (Einaudi). Questa, non quella spirituale, è l'India di Adiga: un universo in metamorfosi in cui il declino del sistema di caste non corrisponde a una crescita della giustizia sociale, in cui il vuoto del governo permette all'invidia e all'ingordigia di prosperare, e in cui la burocrazia crea l'illusione dell'ordine e della giustizia, ma nasconde l'opposto. La prima cosa che viene in mente leggendo L'ultimo uomo nella torre, il terzo romanzo di Aravind Adiga in uscita in questi giorni da Einaudi, è che la «Mumbai novel» è ormai un genere, ricco, ambizioso e con una sua storia che comincia nel 1981 con I figli della mezzanotte di Salman Rushdie (ma tutta la narrativa indiana comincia con I figli della mezzanotte di Rushdie), passa nel 1995 per il capolavoro di Rohinton Mistry Un perfetto equilibrio, nel 2006 per l'epopea di Vikram Chandra Giochi sacri, e approda ora a questo libro comico-malinconico che somiglia a un romanzo dickensiano, con i suoi poliziotti, i suoi malviventi, i suoi ricchi prepotenti, e i piccoli personaggi dalla personalità decisa. (...) In questo marasma sociale tanto demoniaco nella realtà quanto ricco di suggestioni per il romanziere, due individui contrapposti come Masterji e Shah hanno curiosamente molto in comune: entrambi vengono da fuori, entrambi sono vedovi, entrambi hanno figli maschi figli deludenti. Ma se l'eroe del romanzo è Masterji, è a Shah a cui Adiga attribuisce la riflessione più umana. «La verità», dice il costruttore-corruttore parlando degli inquilini delle torri che si appresta a cacciare dal loro quartiere, «è che anche quando dicono di no, sotto sotto vogliono i soldi. E una volta che li fai firmare, ti sono grati. Non vanno mai alla polizia. Dunque, se ci si pensa bene, tutto quello che faccio io è solo renderli consapevoli delle loro stesse intenzioni».'

28 gennaio 2012

S.L. Bhyrappa: Parva - Recensione di Aravind Adiga

Hindustan Times inaugura una nuova rubrica nella sezione letteraria: alcuni noti autori indiani in lingua inglese recensiranno un'opera (altrui) redatta nella loro lingua madre. Si parte con Aravind Adiga che presenta Parva (1979) di S.L. Bhyrappa, in lingua kannada, una sorta di rivisitazione in prosa del leggendario Mahābhārata.
An epic without heroes, Aravind Adiga, 27 gennaio 2012, Hindustan Times:
'Parva (...) is probably the most successful attempt made to tell the story of the Mahābhārata in the form of a novel. It is a book without gods or heroes; anthropology and psychology shape its events. (...) Bhyrappa’s Pandavas are not semi-divine heroes, but middle-aged men slowed by regret for their wasted lives. (...) Six-hundred and nineteen pages (in the Kannada original text) of such vivid detail: paragraphs that run on for pages without a break. Parva is a psychological epic, darkened by Freudian awareness. The novel moves from one interior monologue to another, getting into the minds of men and women paralysed by subconscious needs. (...) Some portraits are tragic; others are the stuff of black comedy. (...) The Pandavas win, but win nothing: their children are dead, their kingdom is ruined. Parva ends in a rhapsodic, nine-page long block of prose. Fires burn in a forest, it rains in the city, a horde of women raped during the war come to the Pandavas to ask who will look after their illegitimate children; the new king does not know how to answer. The world of the Mahābhārata is being destroyed, and if hope for renewal exists, it does so only ambiguously. Bhyrappa is a polarising figure in Karnataka. In recent years, he has been accused of Hindutva sympathies. His pronouncements on Muslim rulers and Christian missionaries have alienated many of his admirers and contributed to his obscurity outside his home state. (Little of his work has been translated into English.) Back in 1979, however, this gifted novelist’s reverence for his cultural inheritance was balanced by his ambition to modernise it. Thirty-three years after its publication, Parva dazzles: its strangeness seems fresh, and its originality permanent'.