In questi giorni è in distribuzione in libreria L'ultimo uomo nella torre di Aravind Adiga, pubblicato da Giulio Einaudi Editore. Il 27 febbraio 2012 il Corriere della Sera ha pubblicato la recensione di Livia Manera:
'Bisogna avere rispetto per l'ingordigia umana. Soprattutto in una città come Mumbai, dove l'avidità è la benzina che fa correre il progresso, la crescita, il boom edilizio. E Aravind Adiga, che a Mumbai ci vive, sa, per esempio, che nella sua città non c'è cosa che abbia più valore della terra, oggi; che di conseguenza politici e palazzinari sono pronti a qualunque lusinga, bassezza o violenza, per strappare ai pezzenti le loro baracche; e che nulla al mondo come la promessa di ricchezza ha il potere di distruggere lo spirito di una comunità. Se oggi c'è uno scrittore in una posizione privilegiata per raccontare la nuova India delle gru che lavorano giorno e notte per costruire grattacieli scintillanti di marmo mentre squadre di straccioni demoliscono a colpi di martello edifici pieni di amianto in una nube di polveri tossiche, questo scrittore è l'ex giornalista del «Times» che ha vinto il Man Booker Prize nel 2008 con La tigre bianca (Einaudi). Questa, non quella spirituale, è l'India di Adiga: un universo in metamorfosi in cui il declino del sistema di caste non corrisponde a una crescita della giustizia sociale, in cui il vuoto del governo permette all'invidia e all'ingordigia di prosperare, e in cui la burocrazia crea l'illusione dell'ordine e della giustizia, ma nasconde l'opposto. La prima cosa che viene in mente leggendo L'ultimo uomo nella torre, il terzo romanzo di Aravind Adiga in uscita in questi giorni da Einaudi, è che la «Mumbai novel» è ormai un genere, ricco, ambizioso e con una sua storia che comincia nel 1981 con I figli della mezzanotte di Salman Rushdie (ma tutta la narrativa indiana comincia con I figli della mezzanotte di Rushdie), passa nel 1995 per il capolavoro di Rohinton Mistry Un perfetto equilibrio, nel 2006 per l'epopea di Vikram Chandra Giochi sacri, e approda ora a questo libro comico-malinconico che somiglia a un romanzo dickensiano, con i suoi poliziotti, i suoi malviventi, i suoi ricchi prepotenti, e i piccoli personaggi dalla personalità decisa. (...) In questo marasma sociale tanto demoniaco nella realtà quanto ricco di suggestioni per il romanziere, due individui contrapposti come Masterji e Shah hanno curiosamente molto in comune: entrambi vengono da fuori, entrambi sono vedovi, entrambi hanno figli maschi figli deludenti. Ma se l'eroe del romanzo è Masterji, è a Shah a cui Adiga attribuisce la riflessione più umana. «La verità», dice il costruttore-corruttore parlando degli inquilini delle torri che si appresta a cacciare dal loro quartiere, «è che anche quando dicono di no, sotto sotto vogliono i soldi. E una volta che li fai firmare, ti sono grati. Non vanno mai alla polizia. Dunque, se ci si pensa bene, tutto quello che faccio io è solo renderli consapevoli delle loro stesse intenzioni».'