La 35esima edizione del Salone Internazionale del Libro si svolgerà a Torino dal 18 al 22 maggio 2023. Il 20 maggio Jhumpa Lahiri sarà ospite della manifestazione per la conferenza Moravia è un autore classico?.
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14 maggio 2023
1 settembre 2015
Jhumpa Lahiri: In altre parole
A fine gennaio Guanda ha pubblicato il saggio In altre parole, la prima opera scritta direttamente in italiano da Jhumpa Lahiri. Dal 2011 l'autrice vive (anche) a Roma con la famiglia. Vi segnalo l'intervista concessa da Jhumpa a Fulvio Paloscia, pubblicata da La Repubblica il 5 giugno 2015. Jhumpa Lahiri, "l'italiano una scelta di libertà":
'Benvenuta nel Paese di Salvini.
L’altro giorno, a Roma, in una piazza stavano giocando a calcio. La palla mi è capitata tra i piedi, e l’ho resa a quei ragazzi, che mi hanno ringraziata con un “thank you”. Mi sono chiesta: quanto si voleva sottolineare il fatto che io sono straniera? Cosa vuole dire essere italiani? Essere bianchi? Ecco, questa è solo una sfumatura di un fenomeno preoccupante in un’Italia che mi ha dato tanto. Sono ottimista: questo Paese è in trasformazione, e troverà un equilibrio.
Il suo amore per l’Italia è nato dalla lingua, in un viaggio a Firenze.
La storia della città, le conversazioni che ascoltavo per strada, la cadenza (e il fatto che il nostro albergo fosse a pochi passi dalla casa di Dante) si sono connesse in un’ossessione. Una volta partita da Firenze, dove ero arrivata per studiare l’architettura rinascimentale, la lingua ha rappresentato per lungo tempo la città e ciò che di inspiegabile mi aveva lasciato addosso. L’aver studiato latino forse mi aveva predisposta all’italiano, però ho capito subito che questa lingua mi aspettava e attraverso di essa anche questo Paese, la sua cultura, erano ad attendermi.
Era destino, insomma.
L’italiano dà voce al mio desiderio di libertà creativa. È una lingua che ho scelto io, una lingua del disagio visto che devo fare un notevole sforzo per parlarla e scriverla: la mia incertezza nel trovare la parola giusta tra mille tentativi è però anche sperimentazione. Certo, nello scrivere in italiano c’è anche una costrizione dettata, ad esempio, dall’attenzione continua alla costruzione grammaticale. Ma considero la costrizione una condizione propizia per la creatività.
Lo studio dell’italiano l’ha spinta a leggere ed amare i romanzi di Elena Ferrante.
Ammiro moltissimo la scelta di non essere, perché rappresenta la libertà totale, conferisce una maschera efficace, una barriera potente. La mia scelta linguistica ha una motivazione simile, anche io nell’uso dell’italiano provo questa protezione. Uno scudo da me stessa, una sana distanza.
L’italiano ha influito sul suo scrivere in inglese?
Non lo so. Sono tre anni che utilizzo l’inglese solo per la corrispondenza privata e di lavoro. Adesso mi godo questa bolla in cui riesco a parlare, pensare, sognare in italiano. La vostra lingua è come l’ossigeno: un bisogno, un’esigenza, perché rappresenta una trasformazione. Come scrittrice e come persona.
A cosa è dovuto il rifiuto dell’inglese ?
La libertà è troppo preziosa. Tutti gli artisti prima o poi sono in fuga: io per troppo tempo ho cercato il mio punto d’origine, e nell’italiano questo punto non c’è. Percepisco uno scarto tra me ed ogni lingua della mia vita: non leggo il bengalese, l’inglese non appartiene al cento per cento ai miei genitori. Tra me e l’italiano, addirittura, c’è un abisso. Ma è stata una scelta e, come dice Pavese, anche se difficili le scelte sono sempre piacevoli, non opprimono.
Tradurrà lei In altre parole?
No, l’ho affidato ad altri. Mi sembrava di fare un passo indietro, un ritorno, ma io voglio andare avanti. Volevo che la traduzione fosse uno specchio vero del mio italiano e non una specie di italiano inesistente. Adesso ho davanti due libri che mi paiono diversissimi tra di loro.
Anche la copertina di un libro, tema di cui parlerà nella lectio magistralis [a Firenze per il Premio Gregor von Rezzori], è una traduzione, in immagini.
È una maschera. Può ingannare, può tradire, perché deve rappresentare un’opera anche metaforicamente. È stato un analogo saggio di Lalla Romano a ispirarmi questo argomento: è un tema che ha implicazioni molto profonde per uno scrittore, eppure nessuno ne parla. La copertina è la superficie del libro, ma non è superficiale. È come la pelle. È l’identità, che è il tema di tutti i miei romanzi, dove da sempre mi chiedo chi sono, come sono percepita. È struggente affrontare una copertina quando un tuo libro viene pubblicato. Rappresenta la prima lettura collettiva di ciò che hai scritto, percepisci che il libro andrà in mano a un pubblico che non conosci. E dal quale magari vorresti difenderti.
In Italia è stata fortunata: le copertine di Guanda sono di un artista d’eccezione, Guido Scarabottolo.
Mi sono sentita rappresentata dal suo tratto semplice, suggestivo, leggero. C’è un’ambiguità che amo. Mi piacerebbe molto far parte di una collana con uno schema che si ripete. Cerco da sempre l’uniformità, l’appartenenza. Ma lo spaesamento fa parte anche del mio destino editoriale.
Il vestito dei libri è il titolo della lectio. E spesso nei suoi libri gli abiti sono metafora della disappartenenza. Nelle pagine di In altre parole il suo amore per la lingua italiana è raccontato attraverso lo smarrimento di un golfino nero.
Nel testo che leggerò a Firenze spiego l’origine del rapporto conflittuale con le mie copertine attraverso i vestiti, che per me hanno avuto un significato ben oltre la moda. Da piccola il mio armadio era diviso in due: abiti indiani, abiti occidentali. Quando andavo a Calcutta in visita ai parenti, non mettevo vestiti occidentali perché non volevo essere considerata diversa. Ogni bambino vive la diversità dai suoi coetani come una condanna. Agognavo le divise scolastiche dei miei cugini, che davano identità e al tempo stesso ti confondevano tra mille studenti vestiti uguali. Conferivano anonimato. Già allora cercavo l’invisibilità, ma tutto invece mi rendeva “altra”. Sempre. Forse sono diventata scrittrice per sentirmi invisibile. Mentre scrivi sei solo mente, interiorità. Lì l’aspetto non c’entra'.
Argomenti:
AU CINEMA HINDI,
F LA REPUBBLICA,
INIT MEDIA,
INIT SCRITTORI IN ITALIA,
L SAGGI,
LS JHUMPA LAHIRI,
V INTERVISTE,
V MULTICULTURALISMO
29 agosto 2015
Mostra del Cinema di Venezia 2014
[Archivio]
La 71esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia si è svolta dal 27 agosto al 6 settembre 2014. La nota scrittrice Jhumpa Lahiri era membro della giuria nella selezione ufficiale. L'India ha avuto più di un motivo per celebrare:
- Court (lingua marathi, hindi, inglese e gujarati), di Chaitanya Tamhane (classe 1987), ha vinto il premio per il miglior film nella sezione Orizzonti e il premio Luigi De Laurentiis per la migliore opera prima.
- Il film muto Asha Jaoar Majhe (produzione bengali ispirata a L'avventura di due sposi di Italo Calvino), di Aditya Vikram Sengupta, è stato proiettato nell'ambito della rassegna autonoma Giornate degli Autori, e si è aggiudicato il premio per il miglior regista esordiente.
Segnalo inoltre Words with Gods, pellicola internazionale che raccoglie nove storie dirette da registi diversi, fra cui Mira Nair.
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Chaitanya Tamhane |
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Vivek Gomber |
RASSEGNA STAMPA/VIDEO
- Video ufficiale del conferimento dei premi a Tamhane (minuto 6.40 e minuto 9.00).
- Recensione di Court di Renato Loriga, Sentieri Selvaggi, 4 settembre 2014:
'Diventa presto chiaro, però, che l’apparente semplicità del film cela un discorso ben più profondo e stratificato. (...) Ciò che importa al regista però non è l’intrattenimento: le scene di tribunale si svolgono con distesa tranquillità, quasi con noia. Gli elementi procedurali vengono discussi, ma non portano a nessuna soluzione. Sembra quasi che, tanto il giudice quanto gli avvocati non siano poi così coinvolti dal caso in discussione, come invece ci hanno abituati innumerevoli film occidentali dello stesso genere. La scelta compositiva di Tamhane si configura innanzitutto come programmatica e solo in secondo luogo estetica: facendo unicamente ricorso alla camera fissa, col passare del tempo vediamo come la mdp non segua la trama o i suoi protagonisti. Quando la loro udienza è finita ed essi escono dalla stanza, la camera indugia ancora sulla stanza, mentre altri personaggi e altre udienze iniziano. Questi minuti all’apparenza inutili, che tradiscono le aspettative verso un risolversi del plot principale, sono come uno scossone al film intero, che esce da presunte traiettorie obbligate per mostrare come accanto ad una storia ne esistono centinaia di altre. Se in primo momento siamo portati a pensare che [l'imputato] e il suo avvocato difensore siano i protagonisti, presto il film sembra dimenticarli, interessandosi invece alla quotidianità del pubblico ministero e del giudice, al di fuori del loro lavoro in tribunale. Vengono mostrati insieme alle loro famiglie, nelle loro abitazioni, nell’atto di compiere i più semplici e, per noi spettatori, inutili gesti. Lavorando per sottrazione drammatica, Tamhane confeziona un film dall’alto valore politico, scardinando le fondamenta di un genere codificato come il courtroom drama, per firmare una forte accusa non dichiarata delle assurdità del sistema giuridico indiano, che si accompagna a un più ampio, ma sottile, discorso sociale e politico. Ogni personaggio riceve non tanto un approfondimento psicologico quanto uno studio d’ambiente. Con fare documentaristico, ognuno è ritratto nei suoi luoghi, al di fuori dell’aula di tribunale, dove mostra non la sua veste ufficiale ma i panni di uomo o donna qualunque, di essere umano. E di fronte a queste scene, spesso configurate come composizioni ad ampio respiro dove più punti di fuga e nuclei d’azione hanno luogo all’interno della stessa inquadratura, ogni persona si fa uguale, allo stesso modo ridicola e inerme, di fronte all’incomprensibilità del sistema'.
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Aditya Vikram Sengupta, Venezia 2014 |
- Recensione di Court di Mayank Shekhar, Open, 7 gennaio 2015:
'The best Indian film I saw in 2014 was a Marathi movie. (...) Despite its setting, Court isn’t exactly a courtroom drama, at least not in the way we know it from movies that are so self-aware of being part of a well-meaning, preachy genre. (...) This is an anti-genre film. Since there is no such term, we call them art-house movies! It’s also easy to mock or berate the ‘system’ or expose its rottenness from the inside. Court, a deeply humanistic account, delves into the lives of those who comprise that ‘system’: whether it’s the public prosecutor, the defendant, a human rights activist, or the judge. Just the patient unravelling of the characters’ regular, mundane day puts Court on par with the finest in contemporary world cinema'.
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Mira Nair |
- Recensione di Court di Raja Sen, Rediff, 17 aprile 2015, *** 1/2:
'An Indian courtroom is not a place you want to be. (...) It is in this world that Chaitanya Tamhane's impressive directorial debut Court is set, and the director takes his time making us watch paint dry. (...) Tamhane, who dwells on every detail, makes it clear that the tiny technicalities matter while the big picture is much less important. Court, similarly, works far better in parts than as a whole. A highly understated film, it features some marvellous vignettes illustrating class divide and changing mindsets. (...) The film's cast is inspiringly good. (...) Vivek Gomber, also the film's producer, is impressively understated as the defence attorney, but his performance is marred by the way he self-consciously wears his belly like a costume, drawing attention to it and sticking it out, completely at odds with the rest of his character. A constant problem with Court, however, lies in just how ghastly the film's extras are, with almost every person in a non-speaking role doing a jarringly bad job. (...) Tamhane's predilection for making a shot tick on longer than we expect - or, indeed, than it should - is an interesting way to build up audience discomfort but the extras squirm harder than we do'.
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Jhumpa Lahiri e Carlo Verdone |
- Recensione di Court di Rahul Desai, Mumbai Mirror, 3 giugno 2015, **** 1/2:
'Chaitanya Tamhane (...) constructs, with stunning authenticity, a grassroots trial that lays bare the follies of a profession subject to eternal cinematic exaggeration. (...) Tamhane creates an illusion of going behind the scenes; everyday lives are captured with the murky pragmatism of a docudrama. (...) In combining this unsettling level of realism with fiction, in telling a story without having to read it out, the mirror he casts on Indian law-keepers is unsparing, almost patronizing. Court is the movie equivalent of a film critic sitting back and smirking, quietly bemused, at mediocrity unfolding on screen. (...) Tamhane, unlike most directors, doesn't feel the need to celebrate his culture and craft. He creates a self-explanatory portrait, with views for everyone to see. The painstaking strength of this film could also be misconstrued as its weakness; Court is perhaps so good a movie that it doesn't look like one. It is unyielding, funny, mundane, occasionally boring and thought provoking, if only in hindsight. Just like life. Live it'.
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A VIVEK GOMBER,
AU CINEMA HINDI,
FEST 2014,
FEST VENEZIA,
INIT FESTIVAL,
INIT REGISTI IN ITALIA,
INIT SCRITTORI ITALIANI,
INIT VIDEO,
LS JHUMPA LAHIRI,
R ADITYA V.SENGUPTA,
R CHAITANYA TAMHANE,
R MIRA NAIR
19 marzo 2012
Jhumpa Lahiri: My life's sentences
Vi segnalo l'articolo My life's sentences, di Jhumpa Lahiri, pubblicato da The New York Times il 17 marzo 2012. Un estratto: 'Knowing - and learning to read in - a foreign tongue heightens and complicates my relationship to sentences. For some time now, I have been reading predominantly in Italian. I experience these novels and stories differently. I take no sentence for granted. I am more conscious of them. I work harder to know them. I pause to look something up, I puzzle over syntax I am still assimilating. Each sentence yields a twin, translated version of itself. When the filter of a second language falls away, my connection to these sentences, though more basic, feels purer, at times more intimate, than when I read in English'.
Argomenti:
AU CINEMA HINDI,
F THE NEW YORK TIMES,
INIT VARIE,
LS JHUMPA LAHIRI
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