A fine gennaio Guanda ha pubblicato il saggio In altre parole, la prima opera scritta direttamente in italiano da Jhumpa Lahiri. Dal 2011 l'autrice vive (anche) a Roma con la famiglia. Vi segnalo l'intervista concessa da Jhumpa a Fulvio Paloscia, pubblicata da La Repubblica il 5 giugno 2015. Jhumpa Lahiri, "l'italiano una scelta di libertà":
'Benvenuta nel Paese di Salvini.
L’altro giorno, a Roma, in una piazza stavano giocando a calcio. La palla mi è capitata tra i piedi, e l’ho resa a quei ragazzi, che mi hanno ringraziata con un “thank you”. Mi sono chiesta: quanto si voleva sottolineare il fatto che io sono straniera? Cosa vuole dire essere italiani? Essere bianchi? Ecco, questa è solo una sfumatura di un fenomeno preoccupante in un’Italia che mi ha dato tanto. Sono ottimista: questo Paese è in trasformazione, e troverà un equilibrio.
Il suo amore per l’Italia è nato dalla lingua, in un viaggio a Firenze.
La storia della città, le conversazioni che ascoltavo per strada, la cadenza (e il fatto che il nostro albergo fosse a pochi passi dalla casa di Dante) si sono connesse in un’ossessione. Una volta partita da Firenze, dove ero arrivata per studiare l’architettura rinascimentale, la lingua ha rappresentato per lungo tempo la città e ciò che di inspiegabile mi aveva lasciato addosso. L’aver studiato latino forse mi aveva predisposta all’italiano, però ho capito subito che questa lingua mi aspettava e attraverso di essa anche questo Paese, la sua cultura, erano ad attendermi.
Era destino, insomma.
L’italiano dà voce al mio desiderio di libertà creativa. È una lingua che ho scelto io, una lingua del disagio visto che devo fare un notevole sforzo per parlarla e scriverla: la mia incertezza nel trovare la parola giusta tra mille tentativi è però anche sperimentazione. Certo, nello scrivere in italiano c’è anche una costrizione dettata, ad esempio, dall’attenzione continua alla costruzione grammaticale. Ma considero la costrizione una condizione propizia per la creatività.
Lo studio dell’italiano l’ha spinta a leggere ed amare i romanzi di Elena Ferrante.
Ammiro moltissimo la scelta di non essere, perché rappresenta la libertà totale, conferisce una maschera efficace, una barriera potente. La mia scelta linguistica ha una motivazione simile, anche io nell’uso dell’italiano provo questa protezione. Uno scudo da me stessa, una sana distanza.
L’italiano ha influito sul suo scrivere in inglese?
Non lo so. Sono tre anni che utilizzo l’inglese solo per la corrispondenza privata e di lavoro. Adesso mi godo questa bolla in cui riesco a parlare, pensare, sognare in italiano. La vostra lingua è come l’ossigeno: un bisogno, un’esigenza, perché rappresenta una trasformazione. Come scrittrice e come persona.
A cosa è dovuto il rifiuto dell’inglese ?
La libertà è troppo preziosa. Tutti gli artisti prima o poi sono in fuga: io per troppo tempo ho cercato il mio punto d’origine, e nell’italiano questo punto non c’è. Percepisco uno scarto tra me ed ogni lingua della mia vita: non leggo il bengalese, l’inglese non appartiene al cento per cento ai miei genitori. Tra me e l’italiano, addirittura, c’è un abisso. Ma è stata una scelta e, come dice Pavese, anche se difficili le scelte sono sempre piacevoli, non opprimono.
Tradurrà lei In altre parole?
No, l’ho affidato ad altri. Mi sembrava di fare un passo indietro, un ritorno, ma io voglio andare avanti. Volevo che la traduzione fosse uno specchio vero del mio italiano e non una specie di italiano inesistente. Adesso ho davanti due libri che mi paiono diversissimi tra di loro.
Anche la copertina di un libro, tema di cui parlerà nella lectio magistralis [a Firenze per il Premio Gregor von Rezzori], è una traduzione, in immagini.
È una maschera. Può ingannare, può tradire, perché deve rappresentare un’opera anche metaforicamente. È stato un analogo saggio di Lalla Romano a ispirarmi questo argomento: è un tema che ha implicazioni molto profonde per uno scrittore, eppure nessuno ne parla. La copertina è la superficie del libro, ma non è superficiale. È come la pelle. È l’identità, che è il tema di tutti i miei romanzi, dove da sempre mi chiedo chi sono, come sono percepita. È struggente affrontare una copertina quando un tuo libro viene pubblicato. Rappresenta la prima lettura collettiva di ciò che hai scritto, percepisci che il libro andrà in mano a un pubblico che non conosci. E dal quale magari vorresti difenderti.
In Italia è stata fortunata: le copertine di Guanda sono di un artista d’eccezione, Guido Scarabottolo.
Mi sono sentita rappresentata dal suo tratto semplice, suggestivo, leggero. C’è un’ambiguità che amo. Mi piacerebbe molto far parte di una collana con uno schema che si ripete. Cerco da sempre l’uniformità, l’appartenenza. Ma lo spaesamento fa parte anche del mio destino editoriale.
Il vestito dei libri è il titolo della lectio. E spesso nei suoi libri gli abiti sono metafora della disappartenenza. Nelle pagine di In altre parole il suo amore per la lingua italiana è raccontato attraverso lo smarrimento di un golfino nero.
Nel testo che leggerò a Firenze spiego l’origine del rapporto conflittuale con le mie copertine attraverso i vestiti, che per me hanno avuto un significato ben oltre la moda. Da piccola il mio armadio era diviso in due: abiti indiani, abiti occidentali. Quando andavo a Calcutta in visita ai parenti, non mettevo vestiti occidentali perché non volevo essere considerata diversa. Ogni bambino vive la diversità dai suoi coetani come una condanna. Agognavo le divise scolastiche dei miei cugini, che davano identità e al tempo stesso ti confondevano tra mille studenti vestiti uguali. Conferivano anonimato. Già allora cercavo l’invisibilità, ma tutto invece mi rendeva “altra”. Sempre. Forse sono diventata scrittrice per sentirmi invisibile. Mentre scrivi sei solo mente, interiorità. Lì l’aspetto non c’entra'.