30 agosto 2015

Kalyan Ray: Una casa di acqua e cenere

Da qualche mese è in distribuzione nelle librerie italiane Una casa di acqua e cenere, di Kalyan Ray (terzo marito di Aparna Sen), pubblicato da Casa Editrice Nord. Segnalo l'intervista concessa da Ray a Maria Tatsos, pubblicata lo scorso 14 gennaio da Elle:

'Abbiamo incontrato lo scrittore in occasione del lancio del suo libro in Italia. Si è presentato con una copia della sua opera e un enorme quaderno dalla copertina rossa, dai fogli di carta spessa finemente ricoperti della sua calligrafia. «Sa cos’è questo?», mi chiede. «È uno dei quaderni su cui ho scritto il mio libro».

Scusi, sta dicendo che ha scritto un romanzo storico di cinquecento pagine a mano su un quaderno?
Non su uno, ma su nove blocchi come questo, che si trovano solo in India. Sono abituato a lavorare così. Scrivo, prendo appunti, segno con l'inchiostro verde le idee che voglio assolutamente tenere nella stesura finale.

Quanto tempo ci ha messo a scrivere Una casa di acqua e cenere?
Circa quattro anni. Ma per idearlo me ne sono serviti sei. Tutto è iniziato con la notizia di un omicidio, realmente accaduto vicino a New York, che mi ha ispirato... Naturalmente ho cambiato in nomi e l’ho romanzato, altrimenti si rischiano querele.

Lei è indiano, è cresciuto a Calcutta, ma la sua famiglia è originaria del Bangladesh. Come il personaggio di Kush. Quanto c’è di autobiografico in questo libro?
Molto. Fin da piccolo, ho imparato cosa significa perdere la propria patria. Il concetto di identità e di perdita mi sono familiari.

Il romanzo intreccia temi universali, come l’amicizia, la famiglia, il destino, in uno scenario storico molto ampio. Come mai questa scelta?
Sono molto interessato alla Storia, e al tema delle grandi migrazioni. Il Cinquecento è stato il secolo delle esplorazioni, il Seicento e il Settecento della colonizzazione europea. Infine, l’Ottocento è stato il momento delle grandi ondate migratorie. Chi partiva allora, lo faceva in condizioni ben diverse da quelle attuali. Gli italiani che hanno lasciato Boscotrecase - un paesino vicino a Napoli, che cito nel libro - per raggiungere Boston sapevano che non avrebbero mai più avuto la possibilità di rivedere il paese natio. Il tema dell’esilio emerge nella quotidianità. Per esempio, nel cibo: un piatto tradizionale, lontano dalla patria, non ha lo stesso sapore.

Nel suo libro, sceglie di accostare indiani e irlandesi: perché?
Storicamente, molti irlandesi sono venuti in India, come Padraig, al seguito degli inglesi. All’inizio, erano solo gli uomini a emigrare, e le autorità locali incoraggiavano i matrimoni misti, fra europei e indiani. Robert Jenkinson, primo ministro inglese sotto due sovrani, era bengalese da parte materna. Solo con l’apertura del canale di Suez, nel 1869, iniziano a giungere in India i missionari e le donne europee. Da questo momento in poi, è considerato poco opportuno sposare donne indiane. Gli anglo indiani, cioè i discendenti dei matrimoni misti, perdono il proprio status. Molti di loro, e anche tanti irlandesi, in India lavoravano per la polizia britannica. Come il personaggio di Tegart, realmente esistito, che dopo il suo incarico in India fu trasferito in Palestina, dove è entrato nella Storia per aver inventato la tecnica di tortura del water boarding. Eppure, malgrado gli irlandesi in India fossero schierati con gli inglesi, la loro lotta per l’indipendenza in patria ha ispirato molti patrioti indiani. Il massacro di Jallianwala Bagh, nel 1919, che ho inserito nel romanzo, è un fatto storico reale: a dare l’ordine di sparare contro una protesta pacifica di indiani inermi, ad Amritsar, in Punjab, furono due irlandesi. Uno di loro, il governatore Michael O’Dwyer, fu ucciso nel 1940 a Londra da un indiano, che vent’anni prima era un bambino sopravvissuto a quel massacro.

Nel suo romanzo, non mancano gli orfani: la morte sembra colpire con crudeltà i suoi protagonisti. Come mai?
Il libro racconta storie di immigrati, gente povera, e la mortalità fra di loro era molto più alta. A volte, ai bambini non veniva dato un nome ufficiale se non a 12 anni, quando erano sopravvissuti alle malattie. Fino ad allora, si usavano nomignoli familiari. Nelle fabbriche, gli immigrati erano i più vulnerabili e a rischio di morte: lavoravano in condizioni di scarsa sicurezza e se scoppiava un incendio nessuno si preoccupava di proteggerli. Per raccontare una storia aderente alla realtà, non potevo prescindere dal far morire alcuni personaggi'.