13 aprile 2014

Il flusso inverso dei cervelli secondo il film Swades

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Vi segnalo il lungo articolo Arrivano i nostri! Dal brain drain al brain gain: il flusso inverso dei cervelli secondo il film Swades, pubblicato da Crepuscoli Dottorali il 2 novembre 2012 a firma Aelfric Bianchi. L'autore, nella sua interessante analisi, affronta il tema della diaspora indiana e della sua rappresentazione nella cinematografia popolare in lingua hindi, soffermandosi su due titoli in particolare: Dilwale Dulhania Le Jayenge e Swades. Bianchi cita anche Lagaan. Di seguito un estratto:

'All’iniziale diffidenza, se non addirittura manifesta ostilità, nei confronti dei “traditori” NRI [Non Resident Indians], alla cui cultura ibridizzata erano contrapposti i valori puri e incontaminati dell’autentico desh agricolo, subentra una loro progressiva rivalutazione, che finisce per farne l’elemento portante di tutto un filone. Scherniti e derisi in una prima fase in quanto imitatori pedissequi dei “corrotti” costumi occidentali, (...) essi assurgono negli anni al ruolo di eroi positivi, capaci di contemperare nel migliore dei modi modernità e tradizione, importando in contesti “altri” proprio l’attaccamento ai principi e agli ideali patri che in passato erano accusati di aver rinnegato. 
A sancire l’inizio di questa nuova tendenza è senza dubbio Dilwale Dulhania Le Jayenge, (...) autentico cult movie ancor oggi amatissimo dal pubblico indiano. (...) La trionfale accoglienza da parte del pubblico indiano (locale ed espatriato) di Dilwale Dulhania Le Jayenge (...) è alla base del proliferare di film incentrati sulle figure di NRI visti nella loro duplice dimensione deshi e foreign, come portatori di un nuovo benessere ma al contempo strenui difensori dei valori più genuini della terra d’origine. (...)
 
Tra le numerose pellicole imperniate su personaggi di Indiani non residenti nella madrepatria, accomunate dai sermoni di acceso tono patriottico, dalle inderogabili sequenze di danza e canto e dalle scene di matrimonio, potrebbe a un primo sguardo confondersi anche Swades: We, the People. Sebbene ne condivida la tematica di fondo, tuttavia, questo film (...) se ne differenzia in maniera radicale sia sul piano prettamente stilistico e formale sia a livello di impalcatura ideologica. Nonostante la presenza di Shah Rukh Khan (...) e gli elogi unanimi della critica, ricevette un’accoglienza piuttosto fredda da parte del pubblico indiano, assurgendo invece a vero e proprio cult movie presso le platee di NRI disseminate nel mondo. (...) Ancora più evidente è il tentativo di contemperare le istanze tipiche del blockbuster (il cui successo è riconducibile a una vasta gamma di fattori, a cominciare dal costante superamento di nuove frontiere sul piano della spettacolarità, dall’offerta di un’esperienza cinematografica immediatamente gratificante a livello sensoriale e dalla capacità di intercettare i gusti, le tendenze e le opinioni più diffuse nella società) con quelle dei film “d’arte” e di superare la tradizionale incompatibilità con il mercato occidentale. (...) Swades (...) rivela nella sceneggiatura la propria diversità. (...) Al pari di Lagaan costituisce un’opera esemplare della svolta epocale ormai in atto nel cinema di massa indiano, raggiungendo un pubblico assai vasto senza cedere alle facili lusinghe dei grandi titoli commerciali, in genere poco amati dalla critica, maltrattati nei discorsi quotidiani degli spettatori “critici”, ritenuti superficiali e semplicisti nella rappresentazione della realtà, ma soddisfacendone comunque i gusti e i desideri e sottraendosi in tal modo al destino della maggioranza dei film “impegnati”, spesso visti soltanto in Occidente perché neppure distribuiti a livello locale. (...) Da non sottovalutare è poi l’assenza in quest’ultimo film di un “nemico” vero e proprio, subito riconoscibile come tale: il “male” risiede infatti nell’ideologia retrograda, nell’arretratezza e nella rassegnazione, ed è quindi un nemico interiore e senza volto, dai contorni non facilmente definibili. (...)
Il processo di cambiamento interiore del protagonista è indagato con finezza in profondità, a differenza di quanto avviene nella grande maggioranza dei film popolari hindi, che, riducendo o addirittura azzerando l’enorme varietà di identità sociali, regionali, etniche e religiose di cui si compone la società indiana, mirano piuttosto a creare una sorta di Eden omogeneo e uniforme, carente di riferimenti alla storia e all’attualità della nazione e popolato non tanto da “uomini reali”, quanto piuttosto da archetipi, modelli perfetti e tipi fissi, sostanzialmente stereotipati (l’Eroe e il Cattivo, l’Eroina e la sua Migliore Amica, il Padre Affettuoso e la Matrigna Crudele). (...) Grande attenzione il regista dedica inoltre all’analisi psicologica dei personaggi secondari, i quali non si limitano a incarnare semplici “maschere”, ma risultano investiti di una marcata impronta specifica e individuale. (...) 

La questione stessa delle caste è affrontata con inusuale garbo e in maniera assai approfondita, senza l’enfasi retorica - e la sostanziale superficialità - che caratterizza molti film bollywoodiani di tematica “sociale”: Mohan [il protagonista], pur opponendosi alle discriminazioni e ai pregiudizi implicati da un sistema che ritiene ingiusto e arretrato, fonda le proprie argomentazioni su motivazioni razionali, argomentandole e discutendole nello spirito di una critica costruttiva, evitando condanne iperboliche e spettacolari e mostrando sempre e comunque rispetto nei confronti di opinioni che non condivide ma che sa bene essere radicate da sempre nella mentalità indiana. Improntata al medesimo realismo è anche la rappresentazione pratica della miseria che si cela sotto la facciata luminosa di una nazione in continua e inarrestabile crescita e delle iniquità di cui essa è permeata. Esemplare in questa prospettiva è la sequenza della proiezione all’aperto di un vecchio successo bollywoodiano (...), con lo schermo che divide non solo simbolicamente gli abitanti del villaggio in due (i membri delle caste inferiori essendo costretti ad assistere al film da dietro), almeno finché non si celebra il miracolo salvifico del cinema, capace di abbattere ogni barriera e di unire tutto il pubblico, sia pure per un istante, in un entusiastico coro di approvazione. Senza dubbio una così atipica e massiccia presenza di agganci alla realtà sociopolitica contemporanea (...) può aver turbato spettatori avvezzi a cercare in prima istanza l’intrattenimento puro e una sorta di rifugio ideale per i propri sogni, contribuendo a determinare l’accoglienza non certo trionfale riservata a Swades. (...) Alla luce di simili premesse, può apparire per certi versi legittimo definire Swades come una sorta di anello di congiunzione ideale tra il filone cinematografico dedicato agli indiani espatriati e i film sociali e progressisti del periodo nehruviano. (...) Emerge dunque con chiarezza l’estrema complessità di un film che si presta a diversi livelli di lettura, capace di coniugare, pur con qualche pecca, intrattenimento leggero e denuncia sociale, spettacolarità e realismo, spirito patriottico e assenza di retorica. (...) Con Swades Gowariker ha saputo senza dubbio rinnovare un modello ormai ritenuto superato, affrontando con sensibilità temi cari a molti registi del periodo post-indipendenza, in particolare a quelli bengalesi: l’oppressione dei più deboli, le diseguaglianze sociali e gli stenti degli strati meno abbienti della popolazione indiana. Parallelamente, ha dimostrato come sia possibile sfruttare un filone consolidato, quello appunto imperniato sulla figura del NRI, in maniera originale. 

Significativa è in quest’ottica la scelta di Shah Rukh Khan nel ruolo di protagonista, in quanto l’attore deve molta della sua immensa popolarità anche fuori dai confini del Subcontinente alle sue numerose interpretazioni di indiani espatriati, a partire dal già menzionato Dilwale Dulhania Le Jayenge. Non a caso la sua prova si è meritata il plauso unanime della critica, che ne ha lodato l’intensità e la misura, a loro volta piuttosto inconsuete nella carriera di King Khan, avvezzo a far convergere su di sé l’attenzione degli spettatori, spogliando i suoi personaggi di ogni parvenza naturalistica per rivestirli di cliché di successo sperimentati, dalla postura fortemente evidenziata alla dizione enfatizzata e lontana dal normale parlato quotidiano, alla drammatizzazione del comportamento fisico e affabulatorio. In Swades, al contrario, la sua recitazione è composta e controllata, scevra di gigionerie anche nelle situazioni dove ci si attenderebbe un suo atteggiamento da “mattatore”. E non è da escludere che una simile anomalia possa a sua volta aver inciso sullo scarso successo commerciale del film, almeno presso il pubblico locale, favorendone al contrario gli ottimi risultati conseguiti in Occidente, non solo tra i migranti indiani. A differenza di quanto accade in numerose pellicole appartenenti al medesimo filone, inoltre, Shah Rukh Khan interpreta qui una figura più complessa, meno ancorata agli stereotipi tradizionali: Mohan incarna in sé, infatti, proprio quell’ambivalenza (...) perlopiù assent[e] nei personaggi dei film commerciali. Lacerato da dubbi e da contraddizioni, fino all’ultimo è preda del dilemma della scelta tra due alternative, nessuna delle quali è del tutto soddisfacente. La sua decisione di tornare nella madrepatria è l’esito di un lungo processo interiore e in quanto tale non si riduce a un mero atto aprioristico, alla conseguenza “naturale” della piena positività associata nel cinema popolare all’eroe. Il suo antagonista non è esterno; risiede piuttosto dentro di lui, nelle sue paure e nelle sue incertezze. Il “nemico” che si oppone al lieto fine non è il terzo vertice del classico “triangolo amoroso”, tanto sfruttato dall’industria bollywoodiana; e nemmeno è, secondo una tendenza assai diffusa, un NRI “cattivo”, che, con le sue perversioni e i suoi vizi, rappresenta l’esatta antitesi del protagonista; bensì è costituito dal suo stesso “lato oscuro”, da un bagaglio di sentimenti contrastanti così “reale” e dunque così estraneo al modello canonico. Con la sua definitiva risoluzione, Mohan non si limita certo a incarnare l’auspicio che al brain drain subentri il brain gain, facendo leva sulla nostalgia, e magari sui sensi di colpa, degli indiani espatriati, ma si spinge oltre, giungendo a indicare una via in grado di superare l’antinomia tra vecchio e nuovo, tra tradizione e modernità, tra Oriente e Occidente, pacificando i due estremi e dimostrandone la possibile coesistenza, in linea peraltro con un pensiero che antepone da sempre l’unità alle differenze'.